22.01 Ciao Camilla! Bello! Ma mandami una foto pure di questo Fabio!
22.02 Davvero vuoi vederlo?
22.03 Beh, sì, sono curiosa!
22.04 Eccolo qua! Che ne dici?
22.06 Mah… veramente….
22.07 Cioè?
22.08 Camilla! Stai diventando permalosa come i palermitani!! Scherzooooooo! È bellissimo, il tuo Fabio! Non sembra poi tanto vecchio. Cosa avete fatto, oltre le foto?
da Le relazioni pericolose 2.0
Scrivere un romanzo utilizzando le modalità di scrittura usate sui social non è stata una sfida semplice. Quello che utilizziamo quando scriviamo le nostre e-mail, ma soprattutto i nostri messaggi su WhatsApp e Messenger, o anche di più negli SMS, è un linguaggio povero e scarno, ridotto all’osso per esigenze di rapidità, e, nello stesso tempo codificato secondo tutta una serie di regole nuove, che si sono autoaffermate nel tempo, senza che nessuno le abbia formalizzate. Già può risultare criptico parlare di certi argomenti usando queste nuove modalità espressive, ma come era possibile raccontare una, anzi, più di una storia d’amore, far arrivare ai lettori le dinamiche sottili che regolano il gioco della seduzione, lo spessore emotivo di certi personaggi che, proprio nella loro volontà di dire poco o nulla di sé, trovano nel linguaggio dei social un alleato prezioso a custodire i loro segreti?
All’inizio questa scelta mi è sembrata un cul-de-sac, ma quasi subito mi sono resa conto che invece costituiva proprio uno dei punti di forza del mio romanzo Le relazioni pericolose 2.0. Del resto, anche quando Choderlos de Laclos ha scritto le sue Les liaisons dangereuses (Le relazioni pericolose) nel 1782 ha scelto di raccontare unicamente tramite le lettere scritte dai suoi personaggi una storia di seduzione, intrigo, amore e vendetta. Non solo, generale rivoluzionario e poi burocrate sotto Napoleone, Laclos ha usato il suo romanzo epistolare per condannare gli eccessi delle nobiltà borbonica, il vizio e la corruzione che vi serpeggiava, complice la pressoché totale mancanza di educazione sentimentale e morale a cui erano relegate le donne. Una serie di temi non da poco, insomma, che la forma epistolare doveva esprimere, senza nello stesso tempo annoiare i lettori.
Il pensiero di come Laclos ha affrontato il problema è stato uno stimolo anche per me, che, rispetto a lui, mi ritrovavo a poter giocare su diversi livelli, e credo che sia stato proprio questo a farmi capire le potenzialità della mia scelta apparentemente ardua. Ho capito che potevo sfruttare a mio vantaggio i cambi di ritmo e registro come volevo, passando dallo stile delle e-mail tra Giacomo e Isabella, più vicine per certi versi allo stile epistolare, agli scambi brevi e quasi sincopati su Whatsapp tra Camilla e Giada. Man mano che il romanzo andava avanti, questa modalità di scrittura mi offriva spunti sempre più interessanti. Avvicinandomi al finale, quando le vicende si ritorcono contro i protagonisti, messaggi lapidari ed essenziali diventavano un modo per rendere lo stringersi progressivo delle maglie della vicenda (e di quelle della giustizia) intorno a chi, fino a poco prima, sembrava essere il primo artefice di intrighi e trame.
Insomma, senza rendermene conto sono caduta io stessa “vittima” del mio gioco linguistico, e mi ci sono appassionata al punto da riuscire, spero, a condurre i lettori esattamente dove volevo: a scoprire una storia a più livelli, dove le parti in gioco mutano continuamente, dove nulla è come sembra, e per scoprire la direzione della storia occorre davvero leggere tra le righe, interpretare le intenzioni, nella scrittura apparentemente innocua che scorre quotidianamente su display luminosi, stretti nelle nostre mani.